Edoardo Giuseppe Leone, milanese, classe 2002, ad aprile di quest’anno ha vinto il Campionato Nazionale di Triathlon US Collegiate Club sulla distanza “Draft-Legal”. Un risultato frutto di una preparazione a distanza durata mesi (come ha scritto nel suo post di ringraziamento su Instagram) cominciata dopo il 14° posto dell’anno precedente quando sentiva di avere ancora del potenziale da esprimere.
Da Milano a Los Angeles
La storia del giovane Edoardo, chioma bionda e riccia che non a caso ricorda quella di un piccolo leone (nomen omen), non è soltanto fatta di passione per il triathlon come siamo spesso abituati a sentire. È un po’ diversa perché diverso è l’approccio alle cose, una caratteristica che gli ha permesso di continuare a fare sport e crescere anche dopo il trasferimento da Milano a Los Angeles per motivi di studio.
Si chiama “mindset”, mentalità. Quella scintilla che, nel suo caso, si è trasformata in una dedizione straordinaria fatta di oltre 600 ore di allenamento intenso tra impegni accademici, vita personale e lavoro come assistente ricercatore di Ingegneria impegnato nella costruzione di un modello di cuore umano che risolva le malformazioni del ventricolo sinistro dei bambini affetti da patologie cardiovascolari, aiutando così il lavoro dei cardiochirurghi. Il suo percorso, che condivide apertamente per ispirare gli altri, si basa proprio sull’allenamento della mentalità e sulla pianificazione per raggiungere un obiettivo, indipendentemente dalla natura delle sfide da affrontare.
Sui tuoi social parli spesso di mentalità. Cos’è per te il mindset?
È un esercizio che è necessario fare se si vuole cercare davvero un miglioramento, sia nello sport che nella vita di tutti i giorni. Parlando di triathlon, per me mindset vuol dire la capacità di fermarsi e analizzare cosa è andato bene e cosa no, soprattutto quando si vince.
Come e da dove nasce la passione per il triathlon?
Tutto è cominciato quando giocavo a calcio. Facevo il portiere in una squadra milanese allenandomi con le giovanili di Inter e Milan. Nell’estate in cui avrei potuto fare un passaggio cruciale per un possibile futuro calcistico, mi dissero che ero ancora troppo piccolo e che non sarebbe stato possibile. Ho conosciuto il triathlon tramite una mia coetanea, Sofia Spreafico, figlia di amici di famiglia. Aveva cominciato in quel periodo e mi disse che dovevo provarci anche io. Così ho provato, anche perché ho sempre amato la corsa. Fin da bambino.
Dal calcio al triathlon: qual è stata la prima differenza che hai notato?
Quando facevo il portiere non mi è mai piaciuto che quando sbagliavi ti davano tutti addosso, mentre quando vincevi eri un grande. Nel triathlon, invece, ti assumi sempre la responsabilità. In tutti i casi.
In quale squadra hai mosso i primi passi?
Ho cominciato con un team vicino casa all’idroscalo (Cnm, ndr), poi si sono sciolti e sono andato in Raschiani dove ho conquistato qualche podio in Coppa Italia Duathlon da junior. Poi, sempre da junior, sono andato agli Europei di Duathlon con Gambitta e De Marchi. Avevamo la squadra più forte. Dopo la prima frazione eravamo già in zona podio, poi purtroppo in bici siamo caduti ed è sfumata una grande soddisfazione.
Che ricordo ti porti dietro da quell’esperienza in Nazionale?
Il fatto che potevamo farcela. Conservo ancora il body strappato e macchiato di sangue per ricordarmi che si può cadere ma ci si può e ci si deve rialzare.
Segui il triathlon italiano?
Certamente, anche perché ho intenzione di tornare a gareggiare in Italia non appena ne avrò l’opportunità. Dai risultati che ho visto di recente, due ragazzi che mi hanno colpiti sono Andrea Balestreri e Lorenzo Pellicciardi. Mi sono allenato con entrambi in passato, soprattutto nei camp, e mi fa molto piacere che ultimamente stiano andando fortissimo. Anche se secondo me hanno ancora un gran margine di miglioramento.
Come fa uno studente Italiano a vincere un titolo nazionale US?
Io ho il visto per lo studio. Serve solo essere iscritti a una delle Università americane. Qui non c’è un camp nazionale élite perché gli atleti più in vista partecipano solo alle coppe del mondo.
Come si avvicinano al triathlon i giovani americani?
Qui i ragazzi cominciano all’Università, un luogo di istruzione che offre tanti sport tra cui scegliere. In Italia questo non succede perché lo sport si fa in ambienti extra scolastici. Molti studenti uomini, per esempio, arrivano dall’atletica, quindi il passaggio al triathlon è quasi naturale. C’è lo stesso sistema della pallacanestro, dove le Università ti scelgono. Per le donne, invece, ci sono delle borse di studio gestire dalla Federazione Universitaria. Questo perché il football ha una grande fetta di atleti uomini e bisogna compensare le quote rosa negli sport cosiddetti minori. Se da un lato è giusto puntare all’uguaglianza, dall’altro però bisognerebbe capire che ogni sport ha esigenze diverse che andrebbero tarate ad hoc a livello regolatorio. Troppi uomini nel football tolgono visibilità a chi invece vuole fare triathlon.
Come ci si qualifica al Campionato Nazionale Universitario di triathlon?
La stagione è composta da un circuito gare sprint e olimpico che termina alla fine di marzo. Per accedere alla fase finale si tiene conto delle due migliori prestazioni. Poi comincia un altro “campionato”. Prima ci sono le gare della Conference, il nostro olimpico, tutte a maggioranza no-draft a parte qualche eccezione, alle quali partecipano le squadre della West Coast. A metà aprile, invece, si svolgono i Campionati Nazionali che si dividono in due giornate: la prima dedicata allo sprint col draft legal, dove partecipano 2 atleti per team, e alla staffetta; e la seconda all’olimpico no draft dove quest’anno sono arrivato 8° perdendo qualche posizione.
La location di questo evento è sempre la stessa?
No, cambia ogni due anni. Quest’anno si è disputato a Mission Viejo, località a sud di Los Angeles.
A livello fisico com’è stato passare dal duathlon al triathlon?
Bisogna lavorarci, come in tutte le cose. Fisicamente sono portato per il duathlon ma il triathlon è l’amore della mia vita. In quest’ultimo anno mi sono impegnato molto per migliorare e di questo devo ringraziare Coach Marco Previtali, che da cinque anni mi segue dall’Italia per la parte di corsa, e Coach Moses dell’UCLA Triathlon. Entrambi hanno creduto in me dal primo momento portandomi a raggiungere la forma fisica che ho in questo momento.
C’è spazio per ringraziare anche te?
Direi di sì. Perché sono riuscito a guardare oltre, ho lavorato con costanza e ci ho creduto fino in fondo. Anche la gratitudine nei confronti di noi stessi è un esercizio che dobbiamo imparare a fare più spesso.
Quali sono i tuoi coetanei italiani con cui sei in contatto?
Fondamentalmente gli amici di sempre, quelli del gruppo Raschiani: Davide e Flavio Ingrillì, Nico Strada, Francesco Sacchi, Gabriele Gianatti, Leonardo Cantù, Riccardo Brighi, Christian Davide e Giacomo Mevio.
C‘è un triatleta italiano tra i big a cui un po’ ti ispiri?
Tra i big direi Michele Sarzilla e Ilaria Zane. Il primo per la sua voglia incredibile di stare sempre davanti e poi provare a staccare tutti di corsa, e la seconda per i suoi modi. Ma se dovessi dire un nome su tutti, la mia vera guida nel triathlon da quando sono piccolo è Davide Ingrillì. Oltre ad essere mio coetaneo e ad averlo avuto anche come compagno di squadra, Davide è molto più forte di me. E mi ha sempre spinto a migliorarmi per arrivare a un livello più alto. Abbiamo un bellissimo rapporto.
Ultima curiosità. Ci sono stati momenti difficili?
Si, ed è stato tremendo. Ma gli obiettivi per cui lavori di più sono quelli più soddisfacenti da raggiungere. Credo che con un piano chiaro e una grande forza di volontà si possano spostare le montagne.
Insomma, di scuse sembrano essercene ben poche. Perché se c’è una cosa che è uscita fuori più delle altre da questa chiacchierata, è che il triathlon, come la vita, è proprio un fatto di mentalità. Tutto può cambiare e migliorare. A patto di lavorarci con costanza e dedizione. Chapeau Edo. E in bocca al lupo!
Giacomo Petruccelli